Una 2B in pericolo
Di Niccolò Plateroti
Era ricominciata la
scuola e avevo appena risentito, dopo tre mesi, quel suono di disgrazia…
Stava per cominciare la
lezione quando mi ricordai di aver lasciato un libro nell' armadio, mi
precipitai e aprendolo mi crollò addosso il corpo di Sara Zhou, una mia, ormai,
ex compagna di classe. Era ricoperta di sangue e aveva tre pugnalate
sull'addome che rivelavano quale fosse l'arma del delitto, un coltello da
cucina che però non venne trovato nei paraggi. L’unico indizio apparentemente
utile era una "B" incisa
sulla fronte della sfortunata. La classe era sconvolta e l'arrivo della polizia
non migliorò la situazione. Fin dal principio pensai che per la polizia non
sarebbe stato facile trovare una pista su cui indagare visto che Sara era una
di poche parole. Da quel che riuscii ad origliare non erano state trovate
impronte digitali o segni di lotta, in compenso si trovò l' impronta di una
scarpa per terra. Nonostante mio padre, tenente incaricato del caso, cercasse
di tenermi al di fuori della situazione io decisi di intromettermi lo stesso.
Le mie indagini vennero supportate da Leda, il mio astutissimo braccio destro.
Fin dal primo intervallo ci mettemmo all’opera studiando l'impronta della
scarpa, assomigliava molto a quella dello stivaletto della nuova professoressa
di Lettere conosciuta alla prima ora. Avevo un nuovo nome da mettere nella mia
lista degli indiziati, Costanza Bianchi. Salutai Leda e tornai a casa dove
incontrai mio padre che studiava il caso. Si era fatta notte quando mio padre
andò a dormire e io mi misi a sbirciare tra i suoi appunti.
All' interno trovai i
seguenti indizi:
L ' ora dell' omicidio
era successiva al termine della scuola serale ...
La causa della morte era
soffocamento mentre i tagli erano stati inflitti post mortem.
I suoi genitori erano
partiti quindi lei era rimasta sola a casa, per questo non era stata denunciata
la scomparsa.
Nei due giorni seguenti
per fortuna non successe niente quindi si rivelarono un'occasione per riflettere
meglio insieme a Leda però senza arrivare ad una conclusione.
Il quarto giorno trovammo
Alessandro impiccato sulla porta della nostra classe. Di questo omicidio si
notò subito il cambiamento nel modus
operandi del serial killer ma ciò che dimostrava il legame fra i due casi,
quindi opera dello stesso omicida, era la "B" incisa sulla fronte.
Mi consultai con Leda e
nonostante tutto ancora non capivamo molte cose e i dubbi erano ancora troppi.
La sera vidi mio padre
molto nervoso e ad un tratto però venne verso di me e mi rimproverò per aver
sbirciato tra i suoi appunti e mi ribadì di starne alla larga, cosa che non
avrei potuto fare dato che poteva esserci qualsiasi possibilità che il prossimo
potessi essere io, o qualcun' altro, e non pensai ad altro che impedirlo.
Il giorno dopo tornai a
scuola, che, nonostante l’accaduto, non aveva lo stesso chiuso, anzi le lezioni
continuavano inesorabilmente e qualche volta alle professoresse scappava una
frase come: "State tranquilli, ragazzi " anche se non
serviva a niente, eravamo tutti preoccupati.
La sera tornai a
sbirciare le informazioni trovate da mio padre e trovai solo quelle sulle
professoresse:
Professoressa Lotto:
nessun precedente, marito e tre figli.
Professoressa Bianchi:
figlia unica, perse la madre, più volte ricoverata in ospedale per fratture o
danni più gravi procurati dal padre.
Appena lessi le
informazioni sulla professoressa Bianchi rimasi stupito e cominciai a pensarci
su.
Era mattino quando Leda e
io ci consultammo e pensammo al comportamento della prof. ssa Bianchi
giudicandola seria, nervosa e riservata, così nell'intervallo di nascosto ci
mettemmo a cercare qualcosa nella sua borsa e ci trovammo un coltellino
compatibile ai tagli di Sara e una corda compatibile ai lividi sul collo di
Alessandro. Insieme però pensammo che se lo avessimo detto alla polizia non ci
avrebbero creduto allora presi lo scotch e lo attaccai al coltellino e poi lo
staccai ricavandone le impronte.
Passò ancora un giorno e
si verificò un altro omicidio identico al primo, a morire questa volta fu Leda.
Ciò mi spaventò perché fece pensare a me come prossimo e che avevo due giorni
per incriminarla. Andai di nascosto nel palazzo dove lavorava mio padre e
chiesi da parte di mio padre alla scientifica di analizzare le impronte che
avevo ricavato e mi accertarono che fossero di Costanza Bianchi .
La mattina stavo andando
a scuola disperato per la morte dei miei amici quando qualcuno da dietro mi
mise un panno in faccia e mi trascinò in un furgone...
Mi risvegliai in una stanza
ricoperta di sangue dove entrò la prof.ssa Bianchi. Appena presi le forze le
chiesi il perché avesse fatto tutto ciò e lei mi rispose per vendetta , per
vendicarsi di quello che suo padre aveva fatto a lei e che lo avrebbe fatto
provare ad altre persone, mi misi a tremare dalla paura, speravo qualcuno
potesse aiutarmi. Ad un tratto sentii la porta muoversi ma invece di entrare
Costanza entrò mio padre, preoccupato, che venne ad abbracciarmi e a dirmi che
era tutto finito e che era merito mio ....
Mi risvegliai sul lettino
di un ospedale e la prima cosa che vidi fu mio padre, al quale chiesi come
avesse fatto a sapere che io fossi lì e lui mi rispose che aveva trovato delle
impronte che avevo ricavato e quindi si era preoccupato rintracciando il mio
telefono.
Mi girai dall' altra
parte e pensai alle persone che erano morte per colpa sua e che finalmente
altre persone non avrebbero sofferto più , proprio in quel momento lessi il mio
nome scritto sul foglio appeso alla porta con scritto : "Qui si trova
Niccolò Plateroti " e sentii mio padre che per la prima volta mi
diceva : "Sono fiero di te".
TRADIMENTO ROSSO SANGUE
di Riccardo Reali
Era la notte del solstizio d’inverno nella periferia
di Mosca.
La neve cadeva soffice e silenziosa, le strade erano deserte
e il gelo rendeva tutto immobile e quasi irreale.
All’improvviso un grido spaventoso ruppe quel silenzio incantato
e poco dopo si udirono sempre più vicine, le sirene della polizia.
L’ispettore Popovich si svegliò di soprassalto e si precipitò
in strada per cercare di capire cosa stesse succedendo.
Pochi metri davanti al suo palazzo, giaceva a terra il corpo
di una giovane donna, il sangue ancora caldo, che fuoriusciva dal suo petto,
aveva colorato di rosso intenso la candida neve attorno.
Non c’era più nulla da fare, la ragazza era morta, uccisa da
un solo colpo d’arma da taglio infertole in pieno petto. Un nuovo caso di
omicidio per l’ispettore Popovich su cui indagare.
L’identità della vittima fu presto svelata, si trattava
infatti di Tamara, la figlia dell’ appena eletto presidente Gorbaciov.
L’ispettore parlò con tutti i
collaboratori del presidente per trovare qualche traccia e una pista da
seguire.
La sua attenzione cadde in particolare sul consigliere Rybakov,
che grondava di sudore e sembrava molto agitato.
Popovich decise di farci una bella chiacchierata, Rybakov
negò fino alla fine dell’interrogatorio, di avere ucciso la ragazza.
Non convinto pienamente della sincerità del consigliere,
Popovich decise di perquisire il suo appartamento.
Venne alla luce un unico possibile indizio: un fazzoletto
sporco di sangue trovato sul fondo della cesta dei panni sporchi.
La Scientifica lo
analizzò e scoprì che il sangue apparteneva proprio a Tamara.
Ora Popovich era vicino alla verità … ma chi della famiglia
Rybakov poteva essere stato? Qual’era il movente dell’omicidio?
Le persone presenti nella famiglia erano solo: il
consigliere, la moglie Dana, la figlia Irina e l’anziana madre Olga.
Dopo avere verificato l’alibi di tutti componenti della
famiglia Rybakov, l’ispettore constatò che la figlia Irina non era presente a
casa al momento dell’omicidio e che nessun testimone poteva confermare dove
fosse.
La ragazza sembrava sempre più tesa e preoccupata.
All’ennesimo interrogatorio scoppiò in lacrime e confessò di
avere ucciso lei la figlia del presidente.
Tamara era la sua amica d’infanzia e qualche mese prima le
aveva portato via il suo unico grande amore Brody. Irina, disperata e distrutta
dal dolore, aveva deciso di riprendersi il fidanzato togliendo di mezzo la
rivale.
L’ ispettore Popovich, risolto il caso, venne stimato da
tutti e venne promosso ad un grado superiore.
Il presidente inoltre lo premiò regalandogli una vacanza di
relax in crociera sul mar Mediterraneo così che, dopo un meritato relax,
potesse tornare ritemprato ad indagare su nuovi misteriosi casi, per le strade
e i bassifondi di Mosca.
UN OMICIDIO PER COMPITO
di Bozzi Sara, Civardi Fabiola e Zhou Sara
In una notte buia, in un comune
isolato della Campania di nome Boscoreale, si svolge un omicidio nello studio
fotografico di via A. Diaz.
È notte fonda e il commissario
Palumbo viene svegliato da una telefonata dell'ufficiale di polizia. Si alza
bruscamente dal letto, risponde in modo seccato alla telefonata e viene
informato dell'omicidio. Si veste in modo frettoloso e corre in commissariato.
In commissariato l'aria che si
respira è agitata. Gli viene subito incontro l'ufficiale di polizia che gli
dice che il suo collega Fazio è già sulla scena del delitto e che lo deve
raggiungere.
Palumbo, grazie a un passaggio in
macchina, è rapidamente sulla scena dell'omicidio. Esamina con il collega il
corpo senza vita e giunge alla conclusione che la vittima è stata ammazzata con
un colpo diretto di pistola alla tempia. Si scopre grazie a un testimone, amico
del deceduto, che si chiamava Antonio Piscitelli. Il commissario chiede al
testimone di deporre in commissariato. Qui, il testimone parla di Antonio come
un brav'uomo, un uomo che pensava solo al lavoro e alla famiglia. Il
commissario chiede anche al signor Giulio se può dirgli dove abita la famiglia
della vittima.
Palumbo, grazie alle informazioni
di Giulio, riesce a trovare la casa di Antonio e a parlare con la moglie e
intanto chiede ai poliziotti che sono con lui di perquisire la casa.
Si reca poi nello studio di
Antonio dove Palumbo trova un accendino e un archivio nel quale sono
trascritti i nomi di tutti i suoi clienti e, alla fine della lista, c'è
una parte bruciata dove molto probabilmente c'era un nome. Palumbo riesce
a leggere la prima e l'ultima lettera del nome “A,C” ormai completamente
bruciato e chiede alla signora Piscitelli le chiavi per entrare nel negozio del
marito. Dopo ringrazia la moglie del defunto per la collaborazione ed
esce dalla casa.
Ormai si è fatta notte e il
commissario torna a casa: è stanchissimo e appena tocca il letto si addormenta. Il
giorno dopo prende le chiavi del negozio di Antonio che aveva deposto in un
cassetto della sua scrivania e in macchina raggiunge via A. Diaz. Arrivato
perquisisce il negozio e, vicino alla scrivania, trova una fotografia in bianco
e nero raffigurante un chiosco di nome “Caruso”, nel ripiano a sinistra vicino
alla macchina del caffè riesce a scorgere una busta al cui interno sembra
esserci della cocaina.
Palumbo prende la fotografia la
mette in una busta ed esce. Tornato in commissariato mostra la foto a Fazio e
gli chiede di fare ingrandire la foto con il computer. Il commissario intanto
si fa un sacco di domande: si chiede se è possibile che quell’ uomo così bravo
di cui parlano tutti così bene possa avere fatto veramente uso di
stupefacenti e essersi suicidato. Le prove sono chiare: una foto con della
cocaina, e un tragico colpo di pistola alla tempia. Ma allora il nome bruciato
con l’accendino ?
Palumbo, in cuor suo, sa che
potrebbe subito dire all’ispettore che Antonio era uno di quei soliti poveretti
a cui la droga aveva fatto perdere la ragione e far chiudere il caso, ma non si
arrende, capisce che c’è sotto qualcosa di più grosso. Si fa sera e il
commissario torna a casa raccomandando a Fazio di chiamarlo appena nota anche
qualche insignificante dettaglio. Arriva a casa e piomba come un sacco di
patate sul divano, le ultime forze che gli restano sono quelle per fare una
camomilla rilassante, anche oggi una giornata piena di quesiti e sorprese. “Drindrin”, Palumbo alza gli occhi dal
cuscino sono le cinque di mattina, ha già capito chi è che gli sta
telefonando….. alza la cornetta del telefono: è Fazio, ha scoperto qualcosa e
sembra molto importante, si danno appuntamento al molo. Palumbo ama sentire
l’odore di salsedine la mattina, si veste di fretta e furia
ed esce.
Ecco Fazio che lo aspetta su un
peschereccio ha con sé la foto e gliela mostra. Fazio facendo ingrandire la
foto ha finalmente scoperto il misterioso nome che era stato bruciato. Il
commissario aspetta un nome.... un nome di persona e invece viene sorpreso
un’altra volta.... il nome scoperto è il nome di un’ azienda: ”ARIC”; il caso si fa sempre più
complicato. Il commissario intanto inizia a fare ricerche serve l’indirizzo e
il nome del proprietario dell’ azienda. Passa tutto il mattino
a cercare delle fonti attendibili e finalmente riesce a trovare l’indirizzo e
il nome del proprietario: Donato Moretti. Chiama Fazio non c’è tempo da
perdere, il caso si sta finalmente districando, insieme progettano un piano per
incastrare Moretti e per farlo finalmente confessare. Ormai è sera e Palumbo è
a casa, si distende sul divano e inizia a fare un sacco di ipotesi su come sia
andata la faccenda, ma l’ipotesi che lo convince di più è una sola e
domani scoprirà se ha ragione. Sono le sei e il commissario Palumbo è già in
commissariato, ha già preso la pistola e l’ha messa nella tasca del giubbotto
antiproiettile, insieme a lui c’è il suo fedele collega e amico Fazio e un
gruppo di poliziotti; si dirigono verso l’azienda di Moretti.
Si introducono nell’azienda ed ad
accoglierli all’entrata c’è una segretaria, percorrono il corridoio e arrivano
allo studio di Moretti. Seduto alla scrivania c’è il sospettato, ha un aspetto
e un comportamento da uomo d’affari, ma appena vede la polizia quel
rispettabile signore si trasforma in una belva feroce ed assassina. Moretti
prende una pistola dalla scrivania, intanto il commissario passa la pistola a
Fazio che con un movimento furtivo arriva alle spalle di Moretti e gli punta la
pistola alla testa; Moretti si arrende alza le mani in alto e Palumbo dichiara
con un’aria più che soddisfatta: “Sei in arresto!”; gli mettono le manette, gli
sequestrano l’arma e lo caricano sulla macchina della polizia per andare
in commissariato.
Moretti confessa tutto: ha ucciso
Antonio perché si era rifiutato di fare delle foto alla cocaina che doveva essere
venduta ad uno dei più ricercati boss mafiosi di Boscoreale; racconta di avere
ricattato Antonio dicendo che se non avesse fotografato quella maledetta
cocaina gli avrebbe ammazzato una dei suoi figli: il più piccolo Pietruccio.
Intanto il commissario pensa:
tutto torna, anche l’accendino, in un momento di paura e rabbia Antonio aveva
bruciato il nome dell’azienda. E’ sera, il commissario si siede sul divano e
riflette : “Anche questa volta è fatta,
Palumbo hai risolto il caso”.
Delitto sulla neve
di Mattia Pellizzari e Alessandro
Parozzi
Erano le 5:15 di un buio pomeriggio d’inverno, mentre la
nebbia avvolgeva le piste innevate dell’Alpe di Siusi.
“Io vado a fare un’ultima pista prima che chiudano gli
impianti” disse Logan afferrando gli sci, con cui aveva passato mille
avventure. Josh alzò lo sguardo dal suo giornale e si alzò dalla poltrona della
hall dell’albergo Da Casemiro. “Sei sicuro? Io fossi in te andrei domani, non
hai visto com’è fitta la nebbia?” esordì l’amico. “Non ti preoccupare: sono uno
sciatore professionista, ormai” rispose ridendo Logan. Josh rifletté un attimo e
poi disse: “OK, ti aspetto per cena. Sii prudente comunque”.
Logan era un ragazzo alto, castano con dei bellissimi occhi
verdi. Non aveva paura di nulla, e questo non era tanto un pregio, anzi era il
suo più grande difetto. Il giovane si sarebbe tuffato in un mare pieno di
squali per recuperare una monetina da venti centesimi!
Josh invece era di media statura, aveva i capelli corti e
neri, sempre pettinati alla perfezione. Il ragazzo era prudente, possedeva un
grande intelletto e aveva lontane origini irlandesi, e il suo accento ne
risentiva.
I due amici erano molto diversi ma erano anche molto legati
tra loro, e ormai si conoscevano da anni.
La porta si chiuse e Josh riprese la sua lettura, mentre
fuori la nebbia aumentava, e molti sciatori ritornavano stanchi dalle piste.
Erano ormai le sei e trentacinque minuti,e il giovane
sciatore non era ancora rientrato. Josh non poteva negare la sua
preoccupazione. Ormai era passato tanto tempo da quando l’amico se n’era andato,
e le piste erano già chiuse. Mentre era immersoin questi pensieri, entrò un
uomo nell’albergo gridando aiuto. Josh gli chiese cos’era successo, ma l’uomo
iniziò a balbettare:
“Neb-bbia… Sci-i… Morto…”.
Allora il proprietario dell’albergo, il sig. Casemiro, gli
diede una tazza di the caldo per farlo calmare. Quando riuscì a calmarsi poté
iniziare a spiegare:
“Stavo per tornare alla
seggiovia quando ho sentito un grido. Mi sono voltato e ho visto un uomo in
lontananza che scendeva accovacciato… quando è sceso vicino a me l’ho chiamato,
ma vedendo che non rispondeva mi sono avvicinato e ho visto che aveva una profonda
ferita al torace e… l’uomo era morto”. Josh si sentì svenire. “Com’era fatto?” disse con un tono di
angoscia. “È qui fuori, l’ho trascinato fino all’albergo” rispose
l’uomo. Tutti si fiondarono fuori. Josh non voleva guardare, ma appena uscì lo
vide. Era Logan, pallido, disteso a terra, con ancora gli sci addosso e con un
taglio profondo che aveva sporcato di sangue pure la neve. Il ragazzo pianse,
perché non lo aveva ascoltato? Ma com’era possibile che si fosse procurato quel
taglio in una semplice caduta? Non poteva essere andato a sbattere contro un
albero, perché altrimenti gli sarebbero rimaste delle schegge, e con la pietra
avrebbe avuto un’emorragia interna. Quello era stato un omicidio e lui avrebbe
risolto il mistero e si sarebbe vendicato…
Esaminò minuziosamente la zona e solo dopo notò il coltello
ancora imbrattato di sangue. Josh lo afferrò e lesse a malapena le incisione
D.C. Aveva già visto quel tipo di coltello ma non si ricordava dove.
“La pista in cui ho
visto il corpo è quasi sconosciuta ai turisti, la conoscono solo i veterani
dell’alpe.” Concluse l’uomo che aveva ritrovato Logan.
Questa era un’informazione importante per Josh.
Rientrò dentro. C’era solo il proprietario. “Brutta ferita, eh?” disse l’anziano. “Già. Ma
so che non è stato un incidente. È stato un omicidio. Ma chi avrebbe potuto
volere farlo fuori ” affermò deciso il giovane. Il titolare ci pensò e poi
disse “Non lo so. So solo che adesso sarò
costretto a chiudere, perché quando si spargerà la voce nessuno vorrà venire nel mio albergo. Nessuno vorrà venire. Nessuno vorrà venire. È possibile che qualcuno arrivi
a uccidere una persona per far chiudere un albergo?”. I pensieri di Josh erano
molto confusi, quando la sua mente si illuminò. “Ma certo!” esclamò, e poi chiese al titolare: “Quanti alberghi ci sono nella
zona?” “Due, il mio e l’Albergo della Marmotta, aperto e gestito dal mio grande rivale. Ma
non capisco cosa possa servirti saperlo” rispose. “E
come si chiama il proprietario
dell’Albergo della Marmotta?” continuò l’improvvisato investigatore. “Dario Cormacci” disse il vecchio. Josh
sorrise, le iniziali del coltello, D.C., coincidevano. Era stato sin troppo fac
ile stanare il colpevole.
Erano le quattro del pomeriggio del giorno seguente. La
nebbia non si era ancora alzata, ma c’era comunque un sacco di luce. Luce
provocata dalle luci rosse e blu della macchina della polizia.
Un signore sulla cinquantina uscì dall’Albergo della Marmotta. Era visibilmente confuso alla vista della
polizia e quando chiese spiegazioni gli dissero che era in arresto per l’omicidio
del giorno precedente. Lui, sconvolto, disse: “Io??? Ma com’è possibile? Ieri sono andato a fare un’escursione
organizzata dall’albergo e sono stato fuori tutto il giorno! E questi signori
possono provarlo!” disse indicando tre ragazzi tedeschi e una decina di
persone che si stavano preparando per andare a sciare. Loro annuirono e mostrarono
delle foto del gruppo in cima ad un passo che si trovava da una parte opposta
del luogo del delitto. E le foto erano state scattate il giorno precedente,
alle cinque e cinquanta. Josh si mise le mani fra i capelli. Aveva sbagliato.
Aveva fatto una tremenda figuraccia. Ma in fondo non era il suo mestiere
l’investigatore. Ma lui aveva promesso di trovare il colpevole, e di certo non
si sarebbe tirato indietro. Ma come era possibile? Chi era stato a uccidere
Logan? Uno che voleva far cadere la colpa sul titolare dell’Albergo della Marmotta? Ma certo! Era
stato il titolare del loro albergo, l’albergo Da Casemiro! Ecco dove aveva visto quei coltelli, erano i coltelli
con la sigla dell’albergo che fornivano per i pasti! Il loro titolare voleva
far ricadere la colpa sul suo rivale in modo che venisse arrestato, cosa che
avrebbe comportato la chiusura del suo albergo.
Era lui l’assassino, che per avere più clienti sarebbe stato
disposto ad uccidere.
Questo spiega come quella fatidica sera lui sapeva che quella
di Logan era una brutta ferita, anche se non l’aveva vista!
E infatti il vecchio conosceva benissimo le piste, così
conosceva anche quella!
“Tutto torna! So chi è il vero assassino! Seguitemi!” disse
ai poliziotti. Ma loro non lo seguirono. Avevano appena fatto una figuraccia e
non volevano rischiare di farne altre. “Dai!
Vi prego aiutatemi!” continuò. “Vengo
io” disse un giovane poliziotto. Josh lo guardò negli occhi. Gli ricordava
il suo vecchio amico Logan, lui non aveva paura. Allora i due corsero all’albergo,
ma ad aspettarli c’era il titolare con una pistola in mano e una valigia nell’altra. “Ah, mi dispiace ma è cartolina! Addio”
disse scappando verso la finestra. Ormai era fatta. Aveva scavalcato la
finestra ed era scappato, dopo tutte quelle indagini. Ma subito dopo si sentì
solo un “Mani in alto!”. Josh e il
giovane poliziotto uscirono per vedere cosa stesse succedendo. La polizia era
venuta lo stesso e l’avevano catturato. L’ultima volta che Josh lo vide era
mentre entrava nella macchina della polizia gridando. La sera venne organizzata
una festa per il caso risolto, ma il ragazzo non partecipò.
Lui non era felice.
Dentro aveva ancora rancore.